venerdì 3 ottobre 2008

Che lingua parlo?





Quand’ero piccola, durante il periodo delle elementari, negli anni '70, vigevano leggi particolari per la tutela delle minoranze linguistiche.

Una legge, in particolare, dava la possibilità a tutti i bambini che avessero avuto almeno uno dei due genitori che fosse autoctono, di partecipare ad un corso di lingua tedesca pomeridiano.
Ero l’unica che aveva entrambi i genitori non autoctoni, significava che i miei nonni non avevano origine dalla Valcanale.

Eravamo in otto nella mia classe e solo io il pomeriggio dovevo rimanere a casa. A quell’età una cosa del genere la prendi come un grosso affronto, un’ingiustizia bella e buona.

Se solo hai una natura un pochino rissosa, è da episodi così che mediti di mettere le bombe sotto i tralicci. Non l’ho proprio presa bene, mi sentivo defraudata di un diritto e da piccoli i diritti sono sacrosanti, non si discute.
Appena ho avuto la possibilità di imparare il tedesco l’ho fatto con avidità, avevo la netta sensazione di aver perso tempo prezioso e di doverlo recuperare; ho scoperto tra l’altro che mi piaceva molto e non avevo alcuna difficoltà.
Nel periodo successivo, durante le scuole medie, ho avuto la fortuna di lavorare con un’amica di qualche anno più vecchia di me; lei parlava il tedesco a casa e durante l’estate lavoravamo insieme in un distributore di carburanti. E’ stato un bel periodo, abbiamo lavorato molto e ci siamo divertite altrettanto. Lei riempiva i serbatoi, io lavavo i parabrezza. E’ piacevole, anche adesso che siamo due “signore di mezz’età”, stupire i nostri figli discutendo di radiatori e pressione dei pneumatici.
Gianna mi ha regalato la proprietà del linguaggio e la scioltezza della costruzione delle frasi, il tutto imparato in allegria, uno dei metodi d’apprendimento più efficaci.
Mi è servito molto sapere il tedesco, non potrei fare il lavoro che faccio se non potessi comunicare almeno un po’ oltre i convenevoli.
I nostri figli adesso imparano anche lo sloveno e l’inglese, sono proprio fortunati.
I bimbi di mia sorella frequentano la scuola materna ad Arnoldstein, in Austria, a 10 chilometri da qui.
I loro genitori sono convinti che stiano apprendendo la lingua tedesca, invece ho la netta sensazione che stiano facendo una full immersion nel dialetto carinziano. Qualche giorno fa il piccolo se n’è uscito con un’esclamazione che nessuno ha capito. La sua sorellina maggiore era lagnosa e si lamentava dando fastidio a tutti. Janko, quasi tre anni, con il tono autorevole appreso dalle sue maestre, ha esclamato “Nit cencen!” e nessuno ha capito, sul vocabolario non c’era. Ho fatto una piccola ricerca fra i miei clienti austriaci e si è scoperto che è strettissimo dialetto della Bassa Carinzia, si scrive tschencen e significa “Non frignare!” ” Nicht tschencen!”.
Abbiamo imparato una cosa nuova.
Il friulano invece, pur essendo stata la lingua madre di tutti i nostri nonni, ai nostri figli è completamente estraneo.
Io lo capisco e mi piace parlarlo, all’occorrenza.
Anzi ogni volta che è nato uno dei miei figli, all’ospedale di Gemona, facevo una vera e propria immersione nella lingua dei miei avi.
Dopo quattro giorni di permanenza nel cuore del Friuli, dove se non parlavi friulano eri uno straniero, riuscivo a far dimenticare che provenivo dai paesi di Heidi e delle sua caprette.
Il friulano resta però una lingua straniera e spesso mi confondo, utilizzando le congiunzioni in tedesco.
Certi suoni palatali, come la pronuncia di “cjalcjiuts”, calzetti, non riesco a produrli neanche dopo anni di tentativi e di prove. Quindi faccio di tutto per evitarli, con giri tortuosi di parole.
Buona parte della colpa, se di colpa si tratta, la darei a mia nonna: la sua lingua madre era il friulano e quando io cercavo di parlarle nella sua lingua, naturalmente male, lei non riusciva atrattenere il riso. Sghignazzava di gusto, senza neanche far finta di trattenersi, la sua reazione mi bloccava e rinunciavo. Peccato.
Del resto dove vivevo ognuno aveva un dialetto diverso a casa e, per scelta sottintesa, si era deciso di parlare tutti l’italiano, la lingua comune.
I miei figli più grandi hanno studiato a Tolmezzo e a Gemona e quindi Veronica ha imparato il carnico, che è un friulano più crudo e che si avvicina in molti punti al tedesco, mentre Federico dice “Astu voe di vè un pataf!?” con il friulano musicale e delicato di San Daniele, che sarebbe “Hai voglia di prenderti una sberla?!”, esclamativo ed interrogativo allo stesso tempo.
Io e mia madre, che parla il friulano secco della Val Raccolana, diremmo più direttamente” Ti rive un scufiot!” che tradotto è “Prenditi una sberla!” imperativo, non di certo interrogativo, e anche qui si vede la dura concretezza delle genti di montagna. Quelli della collina sono molto più teneri, deve essere il clima.
Lo sloveno lo conosco abbastanza, ma la conoscenza è piuttosto settoriale. Ho una conoscenza molto approfondita dello sloveno liturgico, tutte le preghiere e parti della messa, molti canti.
In chiesa da noi lo sloveno entra nella liturgia della messa per tradizione, e quindi parole come oce, padre, sestra, sorella, bratie, fratello, kruh, pane, drugo berilo, seconda lettura, ed un sacco di altri termini specifici, fanno parte del mio lessico fin da piccola.
Nell’età delle goliardate ho imparato una serie di canzoni popolari slovene poco adatte ad una signora, acquisite durante i riti di entrata nel mondo degli adulti, cioè durante le serate di preparazione della maia , l’albero tradizionale di maggio.
Ho poche opportunità di usare le mie conoscenze linguistiche slovene: fra i canti di chiesa e quelli d’osteria, mi manca tutta la parte dei convenevoli, della conversazione vera e propria.
A proposito di conoscenze linguistiche mio figlio Federico ha vissuto un’esperienza molto particolare, una sera che era a cena in Slovenia con un gruppo di amici della sua età.
Immaginatevi una tavolata di giovanotti ventenni con una serie di birre davanti. Ad un certo punto della cena l’atmosfera era talmente goliardica che è stato naturale intonare un canto, di quelli che fanno parte anche del mio repertorio in lingua slovena, e che io devo evitare di cantare per salvaguardare la mia già compromessa reputazione.
Al tavolo vicino un gruppo di pompieri volontari sloveni stanno cenando. Al termine del canto dei nostri ragazzi, conmpletamente ignari di aver suscitato tanta attenzione, gli uomini del tavolo vicino si alzano in piedi. Con solennità intonano “La montanara”, a quattro voci, come solo gli sloveni sanno fare.
I nostri ragazzi a quel punto stanno zitti.
Si crea un clima di attesa, manca qualcosa.
Uno dei nostri giovani, tra l’altro uno di quelli non molto assidui alle funzioni domenicali, si alza e chinando il capo inizia “Oce nas, chi si u nebesih…” Il Padre Nostro, l’unica cosa che sapeva dire in sloveno.
Tutti si sono alzati in piedi e l’hanno recitato insieme, poi tutti si sono seduti e la festa è andata avanti senza tanto misticismo.
Se a casa sapessero cosa fa all’estero il loro bambino, non ci crederebbero.

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