C'è stato il funerale di Renzo, un grande.
Tantissima gente, pompieri volontari dal Friuli, dalla Slovenia, dalla Carinzia e i cori, non abbiamo mai visto tanta folla in paese, aveva veramente tantissimi amici.
Renzo cantava nel coro parrocchiale ed era una colonna portante del Corpo Pompieri Volontari di Camporosso e anche dell’Unione sportiva. Se c’era da dare una mano lui c’era.
Il suo lavoro era fare il falegname e lo faceva bene. Poi dall’età della pensione si è reso utile soprattutto come sacrista e fac-totum del nostro parroco. Un impegno notevole, anche se all’apparenza sembrerebbe una cosa semplice, un passatempo per anziani.
La nostra Parrocchia ha anche la cura del Santuario del Monte Lussari, centro religioso mitteleuropeo, dove si incontrano fedeli austriaci, sloveni, friulani. Tutto questo a 1.800 metri, quindi con i disagi che l’altezza comporta: trasporti in fuoristrada, 1.000 metri di dislivello da percorrere in meno di mezz’ora, tutte cose che mettono a dura prova le coronarie e la pressione sanguigna.
L’impegno più gravoso però era dover comunicare in tante lingue, difficile trovare un’altra persona che come lui conoscesse lo sloveno, il tedesco, l’italiano, il friulano.
Renzo, oltre a questo bagaglio di lingue aveva imparato anche il dialetto locale, che purtroppo si sta estinguendo. E’ una lingua che si sta studiando e cercando di tutelare in vari modi, in particolare con la stesura di un vocabolario. La sua principale peculiarità è quella di essere composta da termini di derivazione sia slovena che tedesca, un dialetto parallelo a quelli della Gailtal o della Rosental austriaca, che lì sono chiamati Windisch, da Windisch Graetz, la zona confinaria della Stiria, al confine con la Slovenia. Piccole particolarità differenziano questo dialetto da frazione a frazione, attualmente si parla ancora a Camporosso, Ugovizza e Valbruna.
Renzo era arrivato qui in Valcanale da piccolo, la sua famiglia si era trasferita dalla Carnia e credo che da bambino parlasse solo carnico, un friulano un po’ più stretto e meno melodico, con qualche contaminazione tedesca.
Come molte famiglie la sua si era trasferita qui in seguito alle “opzioni”: molte case erano rimaste vuote quando gli abitanti della valle avevano dovuto andare a vivere in Austria. Anche i miei nonni si sono trasferiti in Valcanale in quel periodo e pur provenendo da zone vicine ( la Carnia, la Val Raccolana, che distano da qui non più di 50 km) arrivavano da un altro mondo, dal punto di vista linguistico, culturale, delle tradizioni.
Renzo si era inserito subito bene, talmente bene da apprendere il linguaggio dei vecchi del paese.
La prima volta che sono stata gomito a gomito con lui è stato in un seggio elettorale, eravamo tutti e due scrutatori, lui era un veterano mentre per me era la prima volta, visto che avevo appena compiuto i diciotto anni.
In quell’occasione ho capito che Renzo a modo suo era un’autorità in paese: molto discreto e caratterialmente galante, riusciva a mettere a loro agio tutti, in particolare le persone più anziane. Molti di loro erano ancora intimoriti dall’autorità di questa “Repubblica Italiana”, che in qualche modo avevano dovuto “subìre”.
Per tutti aveva una frase in dialetto camporossiano, che serviva a sdrammatizzare il complicato cerimoniale di entrare nella cabina elettorale e segnare con una matita una scelta piuttosto intricata.
Renzo aveva per tutti gli anziani un’espressione ricorrente, pronunciata con un tono di voce leggermente più alto, per farsi sentire meglio di chi qualche problema d’udito ce l’aveva di sicuro. La frase suonava più o meno così " Ci trj-eba za li-ma-te”, non saprei come si scrive veramente.
Renzo mi ha spiegato che significa “non occorre incollare” e si riferiva alla scheda elettorale, che molti spesso tentavano di chiudere come una busta, usando la lingua come sui francobolli. Lui ci metteva tutte le sue energie per evitare che ciò accadesse, visto che poi da scrutatore le avrebbe dovute passare tutte.
Ha ripetuta quella frase talmente tante volte che mi è rimasta dentro, ho appreso anche la cadenza di questo particolare dialetto che, ad esempio, in una frase così semplice, saliva e scendeva come una nenia almeno tre volte.
Anni dopo, una sera, in canonica, preparavamo le corone d’avvento: eravamo un gruppetto di una decina di donne, credo di essere stata una fra le più giovani. Rami di pino, candele, colla, fil di ferro, un grande tavolo al centro ed intorno ognuna faceva una parte del lavoro, perlopiù in silenzio, data la concentrazione richiesta.
Alcune, le più anziane, parlavano fra loro in dialetto. Fra noi c’era qualcuna che non capiva quello che dicevano , come accadeva anche a me, e sembrava maleducato si comportassero così.
Però succede, si parla nella lingua che ti è più “materna” e ti dimentichi che altri non ti capiscono, non lo fai apposta e non ti rendi conto che non è educato. Lo fa anche mia madre, se si ritrova con qualcuno che è nato come lei nella stessa valle, parla automaticamente in friulano, le sembrerebbe ridicolo parlargli in italiano e non si rende conto che chi non comprende è escluso dalla conversazione.
Ad un certo punto della serata una delle due signore stava cercando di attaccare delle pigne con la colla calda, pigne che invece andavano fissate col filo di ferro. E’ stato un lampo, un tuffo nel passato, un aprire un cassetto chiuso da secoli: come fosse la cosa più naturale del mondo, le ho detto “Ci trjeba sa lì-ma-te”, “non è necessario incollare” , con quella bella cadenza melodiosa che fa andare la voce su e giù.
Mi ha guardato con gli occhi spalancati, non le ho detto che era l’unica cosa che sapevo dirle nella sua lingua.
Renzo ha lasciato qualcosa in eredità anche a me.
Tantissima gente, pompieri volontari dal Friuli, dalla Slovenia, dalla Carinzia e i cori, non abbiamo mai visto tanta folla in paese, aveva veramente tantissimi amici.
Renzo cantava nel coro parrocchiale ed era una colonna portante del Corpo Pompieri Volontari di Camporosso e anche dell’Unione sportiva. Se c’era da dare una mano lui c’era.
Il suo lavoro era fare il falegname e lo faceva bene. Poi dall’età della pensione si è reso utile soprattutto come sacrista e fac-totum del nostro parroco. Un impegno notevole, anche se all’apparenza sembrerebbe una cosa semplice, un passatempo per anziani.
La nostra Parrocchia ha anche la cura del Santuario del Monte Lussari, centro religioso mitteleuropeo, dove si incontrano fedeli austriaci, sloveni, friulani. Tutto questo a 1.800 metri, quindi con i disagi che l’altezza comporta: trasporti in fuoristrada, 1.000 metri di dislivello da percorrere in meno di mezz’ora, tutte cose che mettono a dura prova le coronarie e la pressione sanguigna.
L’impegno più gravoso però era dover comunicare in tante lingue, difficile trovare un’altra persona che come lui conoscesse lo sloveno, il tedesco, l’italiano, il friulano.
Renzo, oltre a questo bagaglio di lingue aveva imparato anche il dialetto locale, che purtroppo si sta estinguendo. E’ una lingua che si sta studiando e cercando di tutelare in vari modi, in particolare con la stesura di un vocabolario. La sua principale peculiarità è quella di essere composta da termini di derivazione sia slovena che tedesca, un dialetto parallelo a quelli della Gailtal o della Rosental austriaca, che lì sono chiamati Windisch, da Windisch Graetz, la zona confinaria della Stiria, al confine con la Slovenia. Piccole particolarità differenziano questo dialetto da frazione a frazione, attualmente si parla ancora a Camporosso, Ugovizza e Valbruna.
Renzo era arrivato qui in Valcanale da piccolo, la sua famiglia si era trasferita dalla Carnia e credo che da bambino parlasse solo carnico, un friulano un po’ più stretto e meno melodico, con qualche contaminazione tedesca.
Come molte famiglie la sua si era trasferita qui in seguito alle “opzioni”: molte case erano rimaste vuote quando gli abitanti della valle avevano dovuto andare a vivere in Austria. Anche i miei nonni si sono trasferiti in Valcanale in quel periodo e pur provenendo da zone vicine ( la Carnia, la Val Raccolana, che distano da qui non più di 50 km) arrivavano da un altro mondo, dal punto di vista linguistico, culturale, delle tradizioni.
Renzo si era inserito subito bene, talmente bene da apprendere il linguaggio dei vecchi del paese.
La prima volta che sono stata gomito a gomito con lui è stato in un seggio elettorale, eravamo tutti e due scrutatori, lui era un veterano mentre per me era la prima volta, visto che avevo appena compiuto i diciotto anni.
In quell’occasione ho capito che Renzo a modo suo era un’autorità in paese: molto discreto e caratterialmente galante, riusciva a mettere a loro agio tutti, in particolare le persone più anziane. Molti di loro erano ancora intimoriti dall’autorità di questa “Repubblica Italiana”, che in qualche modo avevano dovuto “subìre”.
Per tutti aveva una frase in dialetto camporossiano, che serviva a sdrammatizzare il complicato cerimoniale di entrare nella cabina elettorale e segnare con una matita una scelta piuttosto intricata.
Renzo aveva per tutti gli anziani un’espressione ricorrente, pronunciata con un tono di voce leggermente più alto, per farsi sentire meglio di chi qualche problema d’udito ce l’aveva di sicuro. La frase suonava più o meno così " Ci trj-eba za li-ma-te”, non saprei come si scrive veramente.
Renzo mi ha spiegato che significa “non occorre incollare” e si riferiva alla scheda elettorale, che molti spesso tentavano di chiudere come una busta, usando la lingua come sui francobolli. Lui ci metteva tutte le sue energie per evitare che ciò accadesse, visto che poi da scrutatore le avrebbe dovute passare tutte.
Ha ripetuta quella frase talmente tante volte che mi è rimasta dentro, ho appreso anche la cadenza di questo particolare dialetto che, ad esempio, in una frase così semplice, saliva e scendeva come una nenia almeno tre volte.
Anni dopo, una sera, in canonica, preparavamo le corone d’avvento: eravamo un gruppetto di una decina di donne, credo di essere stata una fra le più giovani. Rami di pino, candele, colla, fil di ferro, un grande tavolo al centro ed intorno ognuna faceva una parte del lavoro, perlopiù in silenzio, data la concentrazione richiesta.
Alcune, le più anziane, parlavano fra loro in dialetto. Fra noi c’era qualcuna che non capiva quello che dicevano , come accadeva anche a me, e sembrava maleducato si comportassero così.
Però succede, si parla nella lingua che ti è più “materna” e ti dimentichi che altri non ti capiscono, non lo fai apposta e non ti rendi conto che non è educato. Lo fa anche mia madre, se si ritrova con qualcuno che è nato come lei nella stessa valle, parla automaticamente in friulano, le sembrerebbe ridicolo parlargli in italiano e non si rende conto che chi non comprende è escluso dalla conversazione.
Ad un certo punto della serata una delle due signore stava cercando di attaccare delle pigne con la colla calda, pigne che invece andavano fissate col filo di ferro. E’ stato un lampo, un tuffo nel passato, un aprire un cassetto chiuso da secoli: come fosse la cosa più naturale del mondo, le ho detto “Ci trjeba sa lì-ma-te”, “non è necessario incollare” , con quella bella cadenza melodiosa che fa andare la voce su e giù.
Mi ha guardato con gli occhi spalancati, non le ho detto che era l’unica cosa che sapevo dirle nella sua lingua.
Renzo ha lasciato qualcosa in eredità anche a me.
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