sabato 4 ottobre 2008

Giuditta e mia nonna


Lunedì mattina, di solito, non sto bene, la pressione è molto bassa e faccio fatica ad iniziare la settimana.
Oggi avevo bisogno di “gratificarmi” e quindi ho osato un “colpo di vita”: ho comprato un paio di pantaloni da trekking per uscire con le cjaspe. Quelli invernali che indosso di solito sono troppo pesanti e quelli estivi troppo leggeri: ho trovato in svendita un modello con un tessuto sufficientemente caldo ma abbastanza sciolto da poter essere usato in questo periodo.
Sono contenta. Appena Giuditta tornerà a casa da scuola, dopo pranzo, faremo una salita sulla via del Pellegrino. Lei è sempre contenta di venire con me, per lei è una festa se stiamo un po’ sole.
Giuditta è stata una sorpresa da quando si è annunciata ed è stata sempre coerente, con lei ogni giorno c’è qualcosa da scoprire. Ha un carattere solare ma non esuberante, è riflessiva, a volte si isola e vive nel suo mondo. Al mattino si sveglia col sorriso e si accontenta sempre di poco.
Quando è arrivata avevo trentacinque anni, avevo già tre figli e grossi impegni di lavoro. Non era il momento ideale, secondo logica, per mettere al mondo un altro bimbo.
La cosa più impegnativa, lo sanno tutti quelli che hanno il coraggio di mettere al mondo più dei due figli che la logica consiglia, è decisamente dirlo in giro.
Annunciare l’arrivo di un altro bimbo ti mette davanti a reazioni che spesso ti lasciano disorientato.
Una delle reazioni che più mi ha colpito è stata “Un altro bambino? Bè, meglio che una disgrazia.”.
Direi di sì, è molto meglio che una disgrazia, è un’altra persona da conoscere.
Veronica aveva tredici anni e si vergognava molto di questa scelta dei suoi genitori. La comprendo pienamente: sentire i commenti di chi ti sta attorno, ti disorienta ancora di più.
Poi lei era in quell’età in cui ti stai costruendo delle regole di vita, mettendo sistematicamente in dubbio le scelte che i tuoi genitori ti propongono con il loro esempio. E’ l’età in cui desidereresti tutto meno che due genitori incoscienti, originali e trasgressivi: era l’opinione che lei ricavava di noi ascoltando i commenti su questa maternità.
Federico aveva undici anni e sperava che questo nuovo componente fosse un maschio, gli avrebbe insegnato a sciare e a palleggiare col pallone da basket. Per questo gli è andata bene, con Giuditta ha grosse soddisfazioni a palleggiare dietro casa e anche sugli sci si divertono.
Un amico un giorno mi ha detto “Ma Benve, ma come si fa a fare quattro figli!” e me l’ha detto perché mi stimava e non riusciva a comprendere una scelta così. Forse era veramente interessato ad una risposta, non era un rimprovero come di solito mi capita.
Ho provato a spiegarglielo, ma non era il momento adatto per spiegare scelte di vita.
“Perché avevo paura di rimanere sola” ho provato a dirgli e forse è proprio questo: la paura atavica di perdere la tribù e allora ti costruisci una tribù tutta tua.
Potrebbe essere proprio questa la ragione, io non mi sono posta molti perché: come le nostre nonne, ho accettato la vita che io e mio marito avevamo inconscianmente voluta.
Ci sono tanti modi per non fare bambini, oggi!”.
Questa è la frase che mi ha detto mia nonna, quando le ho annunciato l’arrivo di Giuditta. Ed era piuttosto alterata.
Non ho detto niente, non è che ci fosse molto da dire. Lei mi voleva bene, non voleva ferirmi, la sua era legittima preoccupazione per il futuro.
Quando Giuditta è nata la nonna aveva appena compiuto ottant’anni. L’ha accolta come fosse la prima nipote, non l’ottava.
Io dovevo continuare a lavorare, ero titolare della mia azienda e per molte mansioni non ero sostituibile. La nonna durante il giorno stava con noi, mi portava la piccola ogni volta che era ora di allattarla, e la riportava di sopra quando aveva mangiato. La cambiava e la coccolava come una bambola, si era presa la completa responsabilità della cura di quella “sorpresa”.
Giuditta è cresciuta con gli stessi ritmi della sua bisnonna: riposino a metà mattina, poi pranzo alle 11.00, una passeggiata e poi un riposino, di nuovo merenda ed un po’ di gioco ed infine la cena. Avevano lo stesso ritmo lento, si sorridevano sempre e non si parlavano molto, mia nonna è sempre stata di poche parole.
Quando Giuditta aveva quasi due anni un giorno la nonna, guardandola mentre giocava, ha pronunciato una frase che mi ha stupito “La bimba è a posto, non ha problemi”, mi voleva dire che la bambina era sana, la sua angoscia era che potesse essere down. Secondo lei ero troppo vecchia per avere altri bambini, aveva visto più casi di bambini down nati anche dopo la terza gravidanza. Anche questo l’aveva preoccupata tanto, ma non me ne aveva mai parlato.
La nonna è mancata che Giuditta aveva quattro anni. In dieci giorni un ictus l’ha fatta spegnere come una candela. E’ morta a casa nostra,nel modo più naturale.
Negli ultimi giorni Giuditta aveva finalmente la “bis”, la chiamava così, era la sua bisnonna, all’altezza giusta per accudirla. La nonna era distesa nel letto, ormai incosciente e la bimba andava spesso a vedere come stava.
Un giorno l’abbiamo trovata che stava tentando di far bere alla nonna del succo di frutta, rischiando di farla soffocare, ormai non riusciva più a deglutire.
” La bis ha sete”, ripeteva i gesti che aveva visto fare quando la nonna accudiva lei.
Mia nonna sarebbe stata contenta di morire così, la sua paura era quella di essere di peso, di non essere autosufficiente e di dare disturbo.
Se n’è andata pian piano senza soffrire. Per noi è stata una lezione di vita, specialmente per i ragazzi.
La morte è naturale, non è da subire, è da vivere se si può, non si deve somatizzare ma si deve cercare di capire. Una morte come quella ti fa comprendere il concetto, non è tragedia ma è distacco.
Giuditta era, fra i ragazzi, quella da seguire di più nel periodo successivo.
Aveva paura potessi andare via anch’io e non mi abbandonava mai. Appena tornava dalla scuola materna, stava vicino a me mentre lavoravo e di notte preferiva dormire con noi.
Pian piano ha superato anche questa soglia, la sua mamma era qui e anche tutti gli altri, aveva sempre qualcuno su cui contare.
Giuditta ora parla molto, è una persona equilibrata ed aperta. La sua maestra mi ha detto che se può fa da mediatrice nelle controversie, consola chi è avvilito, gioca con tutti.
La pediatra mi diceva che i bimbi che hanno la fortuna di avere dei nonni con cui si confrontano hanno un equilibrio interiore più forte: il vivere con adulti diversi fa loro apprendere modi diversi di porsi di fronte alla realtà e quindi trovano anche soluzioni diverse ad ogni loro problema.
A volte Giuditta fa un gesto particolarissimo: per piegare il tovagliolo lo trattiene col mento appoggiato sul petto e poi lo piega con le mani. Un gesto che la “bis” faceva sempre, lo ripeteva col fazzoletto anche quando ormai era stesa a letto ed incosciente. Quando io e mia mamma vediamo Giuditta che piega il tovagliolo così, incrociamo sempre lo sguardo. Non occorre dirsi molto.
Mia nonna ha vissuto quegli ultimi anni in grande serenità e soprattutto con l’orgoglio di esserci utile, ed è stata non solo utile, direi indispensabile. Lei diceva sempre: “Con la mia pensione non vivrei, vengo qua che mi danno un piatto di minestra e in cambio faccio la baby sitter”. Non era vero, aveva di che vivere.
Non è stata una baby sitter, è stata una nonna, tutta un’altra cosa.

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