A pranzo io e Maria eravamo sole e lei mi ha chiesto: “Ma tu, con noi figli, usi lo stesso metodo educativo?”
Che domande, mi avevano avvisato che più i figli crescono più la faccenda si complica.
Perché questa mia figliola di quattordici anni si pone il quesito? So che a volte si sente trascurata, ma credo sia il suo carattere: noi “pesci” abbiamo bisogno di attenzioni, di conferme … dovrò ascoltarla di più, darle più attenzione.
Del resto essere il numero tre in una fila di quattro non deve essere piacevole, si perde un po’ d’identità nella baraonda che è naturale ci sia.
Mi spiega che è una domanda che è venuta fuori da una discussione in classe.
Quando mi dicono “Ma come si fa a tirare su quattro figli?” mi stupisce la concezione di “pacchetto-figli”, un pacchetto da quattro.
Il plurale di figlio non è utilizzabile, il concetto di “insieme-figli” funziona nell’insiemistica, ma nella realtà non esiste, escluse le formule testamentarie.
Ognuno di loro è una persona, un io ben definito che scopri pian piano ma che si rende evidente già nei primi giorni di vita, già in quei giorni vedi con chi avrai a che fare.
Si inizia a fare conoscenza con l’allattamento: mentre mangiava,Veronica spalancava gli occhi ed osservava il mio naso aggrottando le sopracciglia e memorizzava particolari, dettagli e sensazioni. Lei succhiava e pensava, e se c’era un qualsiasi nuovo stimolo, un suono, un colore, dimenticava completamente di nutrirsi, per girarsi verso la fonte della novità.
Federico mangiava con avidità e decisione, ad occhi chiusi, per lui l’impegno principale era il cibo, e adesso infatti vorrebbe fare il cuoco.
Maria non era interessata particolarmente né al latte, né a me, viveva già in un suo mondo interiore che doveva essere molto interessante.
Giuditta da subito riusciva a comunicarmi se quello che le proponevo era di suo gradimento. Se tra una poppata e l’altra avevo mangiato cioccolato oppure carciofi, la sua soddisfazione era ben diversa e me ne accorgevo benissimo.
Già nelle prime ore di vita ho iniziato a scoprire le sfumature dei caratteri dei ragazzi: il gioco era decisamente interessante, questa persona che ti era stata affidata aveva già deciso come essere, quel che potevi fare tu era ben poco.
Comunque restava una bella fetta di responsabilità.
Quindi ho spiegato a Maria che credo non esista un metodo educativo che tu possa decidere ed applicare quando diventi genitore.
Esistono le persone, genitori e figli, che insieme si conoscono.
Ed insieme crescono. Io ero ben diversa quando è nata Veronica, avevo ventitre anni, ero sposata da un anno e davanti a me avevo una vita tutta da programmare.
Quando è nata Giuditta ne avevo trentacinque, ero un’altra persona ed anche la maternità l’ho vissuta in maniera diversa, non migliore o peggiore, diversa.
In conclusione, non ho un metodo educativo, mai avuto. Avere un metodo educativo vuol dire decidere come dovrà essere tuo figlio, a priori, senza volerlo conoscere per quello che è.
Bella presunzione.
Che domande, mi avevano avvisato che più i figli crescono più la faccenda si complica.
Perché questa mia figliola di quattordici anni si pone il quesito? So che a volte si sente trascurata, ma credo sia il suo carattere: noi “pesci” abbiamo bisogno di attenzioni, di conferme … dovrò ascoltarla di più, darle più attenzione.
Del resto essere il numero tre in una fila di quattro non deve essere piacevole, si perde un po’ d’identità nella baraonda che è naturale ci sia.
Mi spiega che è una domanda che è venuta fuori da una discussione in classe.
Quando mi dicono “Ma come si fa a tirare su quattro figli?” mi stupisce la concezione di “pacchetto-figli”, un pacchetto da quattro.
Il plurale di figlio non è utilizzabile, il concetto di “insieme-figli” funziona nell’insiemistica, ma nella realtà non esiste, escluse le formule testamentarie.
Ognuno di loro è una persona, un io ben definito che scopri pian piano ma che si rende evidente già nei primi giorni di vita, già in quei giorni vedi con chi avrai a che fare.
Si inizia a fare conoscenza con l’allattamento: mentre mangiava,Veronica spalancava gli occhi ed osservava il mio naso aggrottando le sopracciglia e memorizzava particolari, dettagli e sensazioni. Lei succhiava e pensava, e se c’era un qualsiasi nuovo stimolo, un suono, un colore, dimenticava completamente di nutrirsi, per girarsi verso la fonte della novità.
Federico mangiava con avidità e decisione, ad occhi chiusi, per lui l’impegno principale era il cibo, e adesso infatti vorrebbe fare il cuoco.
Maria non era interessata particolarmente né al latte, né a me, viveva già in un suo mondo interiore che doveva essere molto interessante.
Giuditta da subito riusciva a comunicarmi se quello che le proponevo era di suo gradimento. Se tra una poppata e l’altra avevo mangiato cioccolato oppure carciofi, la sua soddisfazione era ben diversa e me ne accorgevo benissimo.
Già nelle prime ore di vita ho iniziato a scoprire le sfumature dei caratteri dei ragazzi: il gioco era decisamente interessante, questa persona che ti era stata affidata aveva già deciso come essere, quel che potevi fare tu era ben poco.
Comunque restava una bella fetta di responsabilità.
Quindi ho spiegato a Maria che credo non esista un metodo educativo che tu possa decidere ed applicare quando diventi genitore.
Esistono le persone, genitori e figli, che insieme si conoscono.
Ed insieme crescono. Io ero ben diversa quando è nata Veronica, avevo ventitre anni, ero sposata da un anno e davanti a me avevo una vita tutta da programmare.
Quando è nata Giuditta ne avevo trentacinque, ero un’altra persona ed anche la maternità l’ho vissuta in maniera diversa, non migliore o peggiore, diversa.
In conclusione, non ho un metodo educativo, mai avuto. Avere un metodo educativo vuol dire decidere come dovrà essere tuo figlio, a priori, senza volerlo conoscere per quello che è.
Bella presunzione.
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