domenica 5 ottobre 2008

Mio zio Luigi


Mio zio Luigi mi voleva molto bene. Era il fratello di mia madre, non aveva avuto figli suoi ed io ero la prima bambina che girava per casa.
Mi faceva saltare in aria e mi riprendeva al volo, mi faceva il solletico per sentirmi ridere, il ricordo è quello di mani forti e di una grande energia.
Aveva un carattere sensibile ed insicuro, anche se apparentemente appariva sicuro di sé, sempre cordiale. Credo fosse per il fatto che aveva perso il papà da piccolo e che la mamma aveva dovuto, suo malgrado, diventare una donna energica, molto possessiva nei suoi confronti.
Lavorava alla vecchia funivia, era macchinista. Stava tutto il giorno in una cabina di manovra a monte e regolava la partenza delle due cabine. Un lavoro di responsabilità ma fondamentalmente monotono e ripetitivo, con lunghe pause di noia ed attesa.
Spesso andavo su a fargli compagnia, ho ancora vivo il ricordo del rumore sordo della sala macchine e l’odore penetrante dell’olio lubrificante delle funi.
Era un uomo abituato a lavorare all’esterno, con energia, nel bosco; a quella vita si era rassegnato, in fin dei conti era ben pagato e stava al caldo.
Dormiva nella stazione a monte per lunghi periodi, tornava a casa sempre meno spesso.
Era fondamentalmente solo, anche se ha avuto sempre una donna vicino: la sua solitudine interiore non lo lasciava essere completamente di nessuna donna.
La tristezza lo aveva avvicinato all’alcol, e di questo si vergognava, ma contro quell’ angoscia che ti suona dentro, se non sei forte, hai poco da combattere.
L’ultimo periodo della sua vita, dopo la pensione, sembrava potesse essere più sereno. Poi un tumore all’esofago, in sei mesi se n’è andato. Ha avuto modo di prepararsi, lui lo sapeva dal primo momento e lo irritavano i discorsi falsamente ottimisti di chi gli era attorno.
Sapeva e si era rassegnato da subito, non ne parlava e basta.
E’ morto alle sei del mattino all’ospedale di Udine, ero lì con lui.
Non voleva mai disturbare, non chiedeva niente.
Io avevo portato un libro di economia politica e cercavo di studiare e lui solo la sera prima voleva capire a cosa cavolo mi servisse quella roba: me lo stavo chiedendo anch’io, in quel periodo.
Ero lì perché non fosse solo, non ero utile per nient’altro; parlavamo poco, non c’era molto da dire, la dignità del distacco era anche in questo. Se aveva bisogno di qualcosa mi chiedeva di chiamare l’infermiera, era umiliante per lui che io potessi vederlo nudo o scomposto.
Io uscivo e ritornavo quando l’infermiera mi faceva un cenno: mi sono scusata con lei, avrei potuto fare io, non ero una bambina e avevo già due figli. Ma l’infermiera capiva, diceva che era meglio così.
Si è spento con affanno ed io ho potuto capire cosa vuol dire morire. Veder nascere ti cambia la vita e veder morire te la cambia ancora di più. Ti rendi conto che la morte è un compimento ed anche un inizio: pensi “è finita” e senti che non può essere finita.
Non è possibile che quello straccio che hai lì davanti, solo pochi secondi prima fosse vita, desiderio di vita, e così, a chiusura del capitolo, non ci sia più, finito, sparito.
Deve esserci qualcosa, qualche posto dove questa eco continua, dove questo vibrare di emozioni continua a vivere.
Credo che la simpatia e il cameratismo che mi lega a quegli amici che lavorano sugli impianti di risalita nasca anche da tutto questo.
E’ dentro di me: quando vedo una fune che gira, quando sento il fruscio dei carrelli su cui scorre e l’odore acre dell’olio, nell’aria sottile che c’è solo lassù, ogni volta sento una nostalgia malinconica.
Sembra che mio zio Vigj possa spuntare da dietro l’angolo, con le mani in tasca e il passo dinoccolato, il ciuffo biondo spettinato.
Ogni volta che la cabina arriva alla stazione di monte ed io scendo, immancabilmente trovo un sorriso, un ciao, anche solo un semplice cenno.
La malinconia passa subito, si va avanti.

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