martedì 14 ottobre 2008

Lo Schartl.

Preparare lo Schartl è un momento rituale.
Le tradizioni della Valcanale fanno iniziare i festeggiamenti della Pasqua dal momento in cui termina la processione del Sabato Santo, la sera. Si ritorna a casa e ci si siede tutti attorno alla tavola e si mangia il prosciutto cotto che è stato portato a benedire nel pomeriggio.
Il prosciutto è affettato al coltello ed è succoso, morbido, saporito, specialmente se è stato cotto nella crosta di pane. Si accompagna alla crema al kren, preparata con la radice di rafano che si trova nei prati, si grattugia fine fine e a volte si mescola a mela grattugiata, altre volte a panna fresca.
Ma il centro dell’attenzione è riservato allo Schartl, il pane dolce alla cannella. Si pronuncia sciartl, la erre si accenna appena, l'accento è come a dire "sciarpa".
Ci vuole tanta esperienza e tanta pazienza perché riesca soffice e delicato; è un pane arrotolato, con all'interno uva sultanina e cannella, ed incredibilmente il sapore dolce si sposa bene con il saporito del prosciutto ed il piccante del kren.
Lo Schartl nasce dalle stesse tradizioni germaniche che hanno prodotto la Pinza goriziana, la Gubana delle Valli del Natisone, il Presnitz e la Putizza di Trieste, la differenza sostanziale nella Valcanale è la leggerezza del ripieno caratterizzato dalle spezie come la cannella e l’anice stellato, ripieno più leggero perché senza impiego di noci e cioccolato. In Austria si chiama Reindling, mentre nella Valle che sta alle spalle della Valcanale, la Gailtal, viene chiamato Schartl come da noi.
Ogni anno quando lo preparo ritorno indietro di un bel po’ di tempo, a quando (controvoglia) ho “dovuto” imparare a prepararlo da sola.
Avevo sedici anni, era domenica; all’uscita da messa la mia anziana vicina di casa, la stessa che aveva ospitato me e mia madre in quella notte d’inverno, mi ha fermata per dirmi che avevo l’età giusta per imparare a fare lo Schartl da sola e che mi aspettava per le due.
Il tepore primaverile consentiva finalmente di stare un po’ fuori e io avevo ben altri desideri che quello di passare così la mia giornata di festa. Non so se lei potesse aver avuto il dubbio che io non ci sarei andata, in realtà il pensiero non mi ha sfiorato assolutamente, era una cosa troppo “strana” quel breve colloquio sul sagrato. Quella vicina ci aveva regalato ogni anno lo Schartl fatto da lei, ora riteneva fosse giunto il momento di rendermi autosufficiente.
Nella cucina caldissima aveva già preparato tutti gli ingredienti sul tavolo. Mi ha avvolto attorno alla vita uno di quei bei grembiuli con la pettorina ricamata, due giri alle maniche della camicia e via. Toccava a me, lei “dirigeva” stando seduta vicino alla stufa.
Il ricordo più nitido che ho è il dolore alle braccia… lavorare quella pasta setosa così a lungo, a lei sembrava non fosse mai abbastanza lucida….e poi il ricordo del caldo del fuoco a legna ed infine il profumo dolce delle spezie e quello fragrante del pane, che ti penetra fin nei capelli e che a scuola il giorno dopo si sentiva ancora.
Ho conservato la ricetta, trascritta dal tedesco, mentre lo Schartl cuoceva nel forno, dettatami con pazienza con la sintassi irregolare di chi usa l’italiano come seconda lingua, e non è una ricetta ma una poesia.
Una cura maniacale dei particolari, rigore che del resto è fondamentale, una lavorazione lenta ed attenta, ed ogni gesto aveva un suo perché; in quella domenica pomeriggio mi sono stati trasmessi anni di esperienza e di ancestrali prove ed errori e riprove: tutto materiale molto prezioso.

Ho capito poi che in quel pomeriggio la mia anziana vicina non mi voleva soltanto trasmettere una ricetta, ma mi voleva regalare una nuova appartenenza.
A me che avevo radici familiari diverse, che come molti altri non ero parte di una comunità ristretta ed apparentemente chiusa, ricca di tradizioni e di valori, ma comunque una comunità diversa, proprio a me voleva aprire la porta di una casa sconosciuta, calda ed accogliente.
Tutto aveva il sapore di una cerimonia d’iniziazione: entravo nel mondo dei “grandi” prima di tutto, e poi in un mondo di “grandi-diversi”, di un’altra famiglia.
Questo atteggiamento di condivisione e d’accoglienza ha prodotto frutti immediati. Il dono prezioso che mi veniva fatto ha assunto da subito tutta l’importanza che doveva avere, ha sciolto come neve al sole la mia supponenza di adolescente e poi anche di “straniera”, mi ha aperto all’accoglienza e alla comprensione dell’altro. E’ su queste basi che nasce la multiculturalità, ed è una grande ricchezza.
Vorrei riuscire a dirlo a tutti quelli che hanno la fortuna di avere qualcosa da trasmettere, che hanno ereditato radici salde e profonde: le tradizioni si salvano facendone tesoro ma soprattutto condividendo con altri lo spirito che le anima e questo le terrà vive per sempre.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Mi dai la ricetta? mi incuriosisce molto.
Sara