Avevo vissuto anch’io a Venezia per un breve periodo, quando frequentavo Cà Foscari.
Venezia non mi era piaciuta, forse perché non mi ero integrata nel mondo degli studenti. Tornarci per la laurea di Claudia aveva fatto riaffiorare ricordi assopiti, quando siamo passati davanti al cortile della facoltà di Economia non ci sono entrata.
A Venezia stavo tre giorni la settimana perché poi a casa lavoravo e quand’ero giù frequentavo tutti i corsi possibili, anche la sera, fino a tardi.
Venezia è inospitale quando vuole esserlo e fra noi c’era stata antipatia da subito. Il giorno d’inizio dei corsi, all’uscita della stazione l’acqua mi arrivava alle ginocchia, ed era fredda e scura. Non avevo mai immaginato che “acqua alta” volesse dire proprio camminare nell’acqua, pensavo che la gente girasse sulle passerelle, quelle che si vedono a San Marco.
Camminando nell’acqua, se non conosci bene il percorso rischi di finire nel canale ed io non sapevo nuotare.
Eravamo in due, Tiziana ed io: siamo partite da Tarvisio col Romulus nel pomeriggio e siamo arrivate giù che era buio, direi che non è stato per niente piacevole quel primo impatto, credo avessimo avuto tutt’e due l’impulso di tornare indietro e salire sul treno successivo, ma nessuna ha avuto il coraggio di confessarlo all’altra.
Durante il Carnevale, nelle calli c’erano gli ingorghi e i sensi unici: capitava che tu dovevi percorrere solo un isolato, Cà Bembo era lì, la vedevi e lì volevi andare. No, il vigile ti segnalava il senso unico e dovevi tornare in Campo Santa Margherita. Quello era periodo d’esami e tu non avevi nessuna voglia di frizzi e lazzi, era estenuante.
Dopo il primo anno di frequenza stavo giù il meno possibile, scendevo solo per gli esami e per frequentare i corsi veramente interessanti: alle quattro del mattino si partiva col Remus, alle otto eravamo giù a fare la fila. A volte l’esimio professore, arrivato al ventesimo candidato esaminato decideva che aveva altro da fare e che ci saremmo rivisti la settimana successiva.
C’era da fare file dappertutto: per ritirare lo statino, per consegnare il piano di studi, per chiedere informazioni, per pranzare. Le aule erano da duecento posti e noi del primo anno eravamo in seicento, se volevi entrare dovevi essere lì un’ora prima. Le lezioni erano concomitanti, a volte avresti dovuto avere il dono dell’ubiquità: non potevi finire una lezione a Cà Foscari e tre minuti dopo essere a Santa Marta, neanche con l’elicottero ce l’avresti fatta.
Penso che la politica universitaria di quegli anni fosse quella di esasperare gli studenti del primo anno per ottenere una selezione naturale: al secondo sarebbero rimasti in duecento, giusto la capienza delle aule.
Per gente come noi che proveniva da scuole elementari di 20 bambini e da una classe liceale di 15 studenti era evidente che sarebbe stato un salto in un altro mondo. La cosa più sfibrante da vivere era la mancanza di rispetto nei nostri confronti: eri trattato come un numero, quando facevamo quelle file mi sentivo una pecora in mezzo a tante pecore, brutta impressione.
Ora le cose sono cambiate, pare.
Ho qualche bel ricordo del periodo, alcuni corsi erano proprio appassionanti ed i docenti erano in gamba. Fra gli esami complementari c’era anche Sociologia economica, l’ho studiata volentieri. Il corso era tenuto dal professor Ulderico Bernardi, fra le altre cose faceva una bella analisi del rapporto fra tradizione ed innovazione nel mutamento sociale. Fra i testi del corso quell’anno c’erano anche “Le radici dei giorni” e “Comunità come bisogno”, due libri che credo abbiano influito molto sulla mia formazione personale.
Davvero molto bello quel corso. Il suo obiettivo era quello di far comprendere come una comunità sradicata è anche una comunità con uno sviluppo economico irto di difficoltà. L’importanza di creare delle radici in un luogo, di appartenervi, è fondamentale anche dal punto di vista economico.
All’esame ho preso trenta, l’avevo studiato con piacere.
Quando ho presentato il libretto per la registrazione del voto, il professore ha notato il luogo di nascita: “Oh, lei è nata a Malborghetto-Valbruna, bei posti! Lei sa vero, qual’è il nome di Valbruna nella toponomastica locale?”. Il professore aveva studiato approfonditamente il tessuto sociale della Valcanale e lo conosceva bene. Io sapevo che sulle carte del dottor Kugy Valbruna si chiamava Wolfsbach, Tana del lupo , ma non era la toponomastica locale.
Non lo sapevo, accidenti, non me l’aveva mai detto nessuno, ACCIDENTI!
“Non lo so”
“Ovcja Vas. Mi spiace signorina, le posso dare solo ventisette”.
Aveva ragione.
Venezia non mi era piaciuta, forse perché non mi ero integrata nel mondo degli studenti. Tornarci per la laurea di Claudia aveva fatto riaffiorare ricordi assopiti, quando siamo passati davanti al cortile della facoltà di Economia non ci sono entrata.
A Venezia stavo tre giorni la settimana perché poi a casa lavoravo e quand’ero giù frequentavo tutti i corsi possibili, anche la sera, fino a tardi.
Venezia è inospitale quando vuole esserlo e fra noi c’era stata antipatia da subito. Il giorno d’inizio dei corsi, all’uscita della stazione l’acqua mi arrivava alle ginocchia, ed era fredda e scura. Non avevo mai immaginato che “acqua alta” volesse dire proprio camminare nell’acqua, pensavo che la gente girasse sulle passerelle, quelle che si vedono a San Marco.
Camminando nell’acqua, se non conosci bene il percorso rischi di finire nel canale ed io non sapevo nuotare.
Eravamo in due, Tiziana ed io: siamo partite da Tarvisio col Romulus nel pomeriggio e siamo arrivate giù che era buio, direi che non è stato per niente piacevole quel primo impatto, credo avessimo avuto tutt’e due l’impulso di tornare indietro e salire sul treno successivo, ma nessuna ha avuto il coraggio di confessarlo all’altra.
Durante il Carnevale, nelle calli c’erano gli ingorghi e i sensi unici: capitava che tu dovevi percorrere solo un isolato, Cà Bembo era lì, la vedevi e lì volevi andare. No, il vigile ti segnalava il senso unico e dovevi tornare in Campo Santa Margherita. Quello era periodo d’esami e tu non avevi nessuna voglia di frizzi e lazzi, era estenuante.
Dopo il primo anno di frequenza stavo giù il meno possibile, scendevo solo per gli esami e per frequentare i corsi veramente interessanti: alle quattro del mattino si partiva col Remus, alle otto eravamo giù a fare la fila. A volte l’esimio professore, arrivato al ventesimo candidato esaminato decideva che aveva altro da fare e che ci saremmo rivisti la settimana successiva.
C’era da fare file dappertutto: per ritirare lo statino, per consegnare il piano di studi, per chiedere informazioni, per pranzare. Le aule erano da duecento posti e noi del primo anno eravamo in seicento, se volevi entrare dovevi essere lì un’ora prima. Le lezioni erano concomitanti, a volte avresti dovuto avere il dono dell’ubiquità: non potevi finire una lezione a Cà Foscari e tre minuti dopo essere a Santa Marta, neanche con l’elicottero ce l’avresti fatta.
Penso che la politica universitaria di quegli anni fosse quella di esasperare gli studenti del primo anno per ottenere una selezione naturale: al secondo sarebbero rimasti in duecento, giusto la capienza delle aule.
Per gente come noi che proveniva da scuole elementari di 20 bambini e da una classe liceale di 15 studenti era evidente che sarebbe stato un salto in un altro mondo. La cosa più sfibrante da vivere era la mancanza di rispetto nei nostri confronti: eri trattato come un numero, quando facevamo quelle file mi sentivo una pecora in mezzo a tante pecore, brutta impressione.
Ora le cose sono cambiate, pare.
Ho qualche bel ricordo del periodo, alcuni corsi erano proprio appassionanti ed i docenti erano in gamba. Fra gli esami complementari c’era anche Sociologia economica, l’ho studiata volentieri. Il corso era tenuto dal professor Ulderico Bernardi, fra le altre cose faceva una bella analisi del rapporto fra tradizione ed innovazione nel mutamento sociale. Fra i testi del corso quell’anno c’erano anche “Le radici dei giorni” e “Comunità come bisogno”, due libri che credo abbiano influito molto sulla mia formazione personale.
Davvero molto bello quel corso. Il suo obiettivo era quello di far comprendere come una comunità sradicata è anche una comunità con uno sviluppo economico irto di difficoltà. L’importanza di creare delle radici in un luogo, di appartenervi, è fondamentale anche dal punto di vista economico.
All’esame ho preso trenta, l’avevo studiato con piacere.
Quando ho presentato il libretto per la registrazione del voto, il professore ha notato il luogo di nascita: “Oh, lei è nata a Malborghetto-Valbruna, bei posti! Lei sa vero, qual’è il nome di Valbruna nella toponomastica locale?”. Il professore aveva studiato approfonditamente il tessuto sociale della Valcanale e lo conosceva bene. Io sapevo che sulle carte del dottor Kugy Valbruna si chiamava Wolfsbach, Tana del lupo , ma non era la toponomastica locale.
Non lo sapevo, accidenti, non me l’aveva mai detto nessuno, ACCIDENTI!
“Non lo so”
“Ovcja Vas. Mi spiace signorina, le posso dare solo ventisette”.
Aveva ragione.
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