domenica 5 ottobre 2008

Ti auguro di scaldare fra le mani un ballon di vino siciliano


Ieri pomeriggio è stato qui un giornalista di un settimanale che sta facendo un servizio sulla Valcanale, era accompagnato da un fotografo. Simpatici tutte e due, distrutti dal tour de force fra pranzi in agriturismo e discese sulla neve.
Mi avevano avvisato che sarebbe venuto, ho capito in quel momento che voleva intervistare me, pensavo dovessimo parlare dell’offerta locale nel campo eno-gastronomico.
Il fotografo ha scattato due foto che spero non pubblichi, le solite iconografie che indicano che tu vivi per il vino, mentre per me il vino è sì e no il 30% di quello che mi occupa nella vita.
Il giornalista ha preso un blocchetto per gli appunti e i miei clienti austriaci che entravano e uscivano pensavano avessi un controllo della guardia di finanza, da loro funziona così, ed erano piuttosto intimoriti.
Il giornalista ha iniziato dicendo “Come mai questa scelta di dedicarsi interamente al vino? Da dove nasce questa passione?” Accidenti, e sembrava convinto.
Non è una passione, è un lavoro e il lavoro va fatto meglio che si può. Non l’ho scelto e comunque ho “deciso” che mi piace. Non ho grandi passioni, le passioni ti prendono tutto te stesso, mentre dovremmo cercare di non farci prendere completamente da niente, di lasciare spazio a tante facce del nostro esprimersi.
Come facevo a spiegargli una cosa del genere? Non c’entrava niente col fatto che lui fosse qui a capire cosa fa uno che vende vinoin montagna.
Abbiamo parlato di tante cose, ho scoperto che ha scritto un giallo e gli ho raccontato che Salva fa il suo stesso lavoro e che è stato in Sudamerica, per un servizio difficile che l’ha fatto riflettere, un’esperienza che aveva provato anche lui.
Abbiamo parlato del paese da dove proviene lui, sulla montagna dell’Appennino e delle tante similitudini con questa montagna.
Poi abbiamo parlato anche del mio rapporto col vino.
Il primo corso di sommelier l’avevo iniziato quasi per caso: era un periodo in cui non avevo tanto lavoro e poi le lezioni si svolgevano qui, un evento, non era mai successo.
Avevo sempre avuto a che fare col vino, per un motivo o per l’altro e sapevo di non sapere niente sull’argomento.
Non avevamo tradizione famigliare nel settore, tutta la mia famiglia proveniva da zone dove le viti muoiono di freddo e il vino non fa parte della nostra cultura.
Non mi piaceva lavorare in questo modo, sentivo che era un mio dovere saperne di più. Avevo venduto della Malvasia Istriana confondendola con Malvasia siciliana e credo che quel cliente, a Natale, mi abbia mandato una buona serie di maledizioni, quando ha assaggiato quella bottiglia di vino che io gli avevo descritto dolcissimo ed invece si è rivelato un buon vino secco da aperitivo. Una vergogna.
Sono andata al corso conscia di essere molto ignorante: esclusi i colori, rosso e bianco, non sapevo molto altro.
Di tutto il corso mi ricordo in particolare la prima lezione, anche perché alla fine ne sono uscita praticamente ubriaca, un’esperienza che non avevo ancora mai provato nella mia vita.
Eravamo in ventiquattro, quasi tutti uomini e fra questi molti dei grandi esperti della valle. Ci hanno posto davanti, sul tavolino un foglio con dei cerchi disegnati e numerati. Sul primo cerchio hanno messo un bicchiere, l’hanno riempito con due dita di un vino scuro e ci hanno detto di assaggiarlo.
“Questo è un vino troppo acidulo ” ci ha spiegato il relatore.
Ne ero convinta, avevo avuto l’impressione che i miei padiglioni auricolari volessero rattrappirsi.
Sul secondo cerchio hanno messo un bicchiere con altre due dita di vino rosso scuro.
“Questo vino è troppo tannico.”
Sapeva di legno, si aggrappava alle pareti dell’esofago e si rifiutava di scendere. Ok, avevo capito cosa volesse dire tannico.
“Trasferite il contenuto del secondo bicchiere nel primo e appoggiatelo sul terzo cerchio. Questo vino è tannico e acidulo”. Fantastico, già al terzo assaggio ne avevo abbastanza di vino, di acido e di legno.
Così via, fino al settimo bicchiere.
Avevo parcheggiato l’auto al Centro Culturale, in discesa, con la parte anteriore pericolosamente vicina alla scarpata. Mentre armeggiavo col cambio, mi è tornata in mente una frase che avevo sentito pronunciare da uno dei miei clienti, anni prima e che al momento non avevo valutato nella sua tragicità: “Sastu ce fastidi, a tirà fur la machine dal parchegio?”, riassumeva il mio stato d’animo, sai che problemi a venire fuori da quel parcheggio?
Avevo già pagato la quota intera del corso, altrimenti non ci sarei più tornata.
Per la lezione successiva mi sono organizzata e ho portato dei grissini; per fortuna non abbiamo mai più bevuto così tanto, in tre corsi di sommelier credo di aver bevuto al massimo un litro e mezzo di vino, forse due. In tre anni.
Assaggiare non è bere, l’assaggio va fatto in bocca, quasi niente va ingerito, quindi le quantità devono essere minime. Vedere quei sommelier che sputano fa decisamente impressione e a meno che non si debbano fare trenta assaggi uno dietro l’altro, si cerca di evitare di fare teatro.
Il primo esame l’abbiamo passato in dodici, tutte le donne che c’erano. La cosa diventava stimolante.
Al secondo corso siamo passati in 6 e al terzo in tre, di cui due donne.
Mia nonna era notevolmente preoccupata: che io andassi a scuola per imparare a bere non le andava giù, l’alcolismo era stata una piaga in Friuli e lei ne era ancora angosciata.
Ho imparato un po’ alla volta a capire il vino e quando capisci qualcuno, un po’ ti affezioni.
Ogni vino ha una sua storia e dietro l’etichetta c’è la faccia di chi l’ha fatto. Dentro ogni vino ci sono le stagioni: il sole, la pioggia, l’umidità e il secco; ci sono le cantine: le cisterne di inox , le botti nuove e le botti vecchie; c’è il vero concetto del tempo: il tempo della vendemmia, ed è una scelta difficilissima, il tempo della fermentazione ed il tempo del riposo …. in inox, in botte, quanto tempo?
In bocca senti se un vino è stato fatto a tavolino o se invece dietro ogni bottiglia ci sono state delle scelte, delle riflessioni, delle decisioni.
Quando senti tutto questo e lo capisci, a quel punto il vino diventa prezioso, indipendentemente dal fatto che tu lo abbia comprato a tre euro o a trenta.
Bisogna avere rispetto di quel vino, come ne abbiamo per il pane, che mai va gettato, per convinzione atavica.
Come il pane, il vino ha una sua sacralità. Chi comprende questo lo sa apprezzare nel modo giusto.
Non si tratta di conoscere “tutti” i vini, non si tratta di sapere tutto di un viticoltore, che a volte dimentica di essere un contadino e diventa un manager della sua immagine.
Si tratta di gustare una cosa fatta con la testa e a volte anche con il cuore, alzando il calice al lavoro ben fatto.
Al giornalista ho cercato di spiegare tutto questo, fra tante interruzioni di clienti che venivano ad acquistare e stando scomodamente in piedi: avrei potuto spiegarmi sicuramente molto meglio con un ballon di vino siciliano in mano, seduti con calma davanti ad un caminetto acceso, dopo cena.
Purtroppo non è stato così; spero che a quel simpatico giornalista capiti l’occasione giusta prima o poi, l’occasione col vino giusto, la compagnia giusta e anche con la giusta quantità di tempo a disposizione.
Sembra facile, ma che tutte queste componenti siano concomitanti sono casi eccezionali, sono momenti che vanno cercati.

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